SULLA CADUTA DEL GOVERNO DRAGHI E LE ELEZIONI DI SETTEMBRE. [Risoluzione del Comitato Centrale del FGC]
La caduta del governo Draghi
I. La congiuntura politica che ha prodotto la caduta del governo Draghi dimostra l’esistenza di contraddizioni significative all’interno della borghesia italiana, che si riflettono trasversalmente all’interno dei suoi partiti di riferimento e nel sistema politico borghese. Quest’ultimo, in Italia come in altri paesi europei, si regge su un delicato equilibrio che vede ciascuno dei partiti parlamentari e di governo nella posizione di dover rendere conto, allo stesso tempo, ai “piani alti”, cioè ai settori capitalistici dominanti, e alla propria base elettorale nell’ottica di un costante lavoro di costruzione del consenso di massa, la cosiddetta “campagna elettorale perenne” che caratterizza oggi le democrazie borghesi. Nel combinarsi di questi fattori vanno ricercate le ragioni della frattura interna al Movimento Cinque Stelle e della condotta dei partiti del centro-destra, che alla fine ha fatto sì che il governo di Mario Draghi, cioè il governo della “unità nazionale” acclamato a gran voce da Confindustria, rassegnasse le dimissioni.
II. La prima ragione della caduta del governo è confinata alla sfera “politica”, cioè va ricercata nella scelta di alcuni partiti di perseguire la propria agenda, divergente da quella del governo. Il Movimento Cinque Stelle di Giuseppe Conte, al costo della scissione filo-governativa di Luigi Di Maio, ha ritirato l’appoggio al governo mosso dalla volontà di ricostruire il proprio consenso elettorale, rispolverando l’immagine da “movimento” di protesta e facendo leva su una serie di temi simbolo del M5S, a partire dalla difesa del reddito di cittadinanza. La miseria di questa operazione è particolarmente evidente se si pensa ai temi utilizzati a pretesto dal M5S, che ha aperto la rottura politica col governo Draghi con una polemica sui termovalorizzatori, dopo averlo sostenuto su tutte le scelte strategiche fondamentali, dalla gestione del PNRR alla partecipazione italiana alla guerra imperialista in Ucraina, votando persino un nuovo invio di armi a sostegno dell’esercito ucraino pochi giorni prima della crisi di governo. Similmente, la condotta del centro-destra è stata orientata, pur con motivazioni diverse, dalla volontà di andare al voto per capitalizzare in anticipo il consenso ampiamente maggioritario che da tempo emerge in tutti i principali sondaggi. Se Fratelli d’Italia chiedeva da tempo nuove elezioni, per la Lega di Salvini e per Forza Italia andare ad elezioni anticipate era anche il modo per impedire che Fratelli d’Italia divorasse ciò che restava dei loro consensi. Il PD, per contro, ha perseguito con coerenza il proprio tentativo di presentarsi agli occhi della borghesia italiana come il partito più affidabile e “responsabile”, schierandosi in difesa del governo Draghi.
III. Gli eventi delle ultime settimane vanno compresi, soprattutto, anche tenendo in conto il contesto della guerra imperialista in Ucraina. L’“unità nazionale” che Draghi incarnava non era solo quella tra il “popolo” e i padroni, ma anche e soprattutto quella che vedeva la convergenza di tutte le fazioni e i settori della borghesia italiana, sulla base dei loro interessi comuni. In nome di questa unità nazionale e della fedeltà all’alleanza euro-atlantica, questo governo è stato capace di approvare le sanzioni alla Russia, che danneggiano una parte consistente dell’imprenditoria italiana. Il protrarsi della guerra in questo contesto fa scricchiolare questa unità nazionale; non è difficile dunque percepire nella condotta del M5S e del centro-destra un’eco dei malumori di quelle frange di borghesia, tutt’altro che insignificanti, che più di altre pagano il prezzo di questa fedeltà alla NATO. Il fatto che a minare la stabilità del governo Draghi siano stati il M5S, la Lega e l’area di Forza Italia fedele a Berlusconi (al costo di una scissione), cioè i settori storicamente più legati alla Russia e al suo governo, è un dato eloquente che non può essere ignorato.
IV. Infine, nel calcolo di Mario Draghi, che rassegna le dimissioni dicendosi indisponibile a stare dietro ai giochi di palazzo tra i partiti che lo sostenevano, c’è la consapevolezza che i prossimi mesi vedranno l’esplosione delle contraddizioni sociali generate dall’aumento del costo della vita, dei costi degli approvvigionamenti energetici, dalla spirale inflazionistica che – dati di luglio – vede il 9,8% di inflazione nella UE, l’8,9% nell’eurozona, il 7,9% in Italia. Dopo aver orchestrato tutte le direttrici fondamentali della gestione capitalistica dei prossimi anni, il cui prezzo sarà pagato dai lavoratori e dai settori popolari, Draghi fugge via, in tempo per non assumersi pienamente le responsabilità delle politiche antipopolari dell’ultimo anno e non bruciare la possibilità di una sua futura elezione a Presidente della Repubblica. Con questa mossa, la borghesia italiana tenta di gestire la crisi politica, economica e le ricadute che le scelte di questi mesi avranno sulla vita di milioni di persone con un governo che, quantomeno, potrà presentarsi come “legittimato” poiché prodotto delle nuove elezioni.
Sulle elezioni del 25 settembre.
V. La scelta di tenere nuove elezioni a settembre viene imposta da una combinazione di fattori politici e istituzionali. Un voto in fretta e furia che risolvesse nel giro di due mesi il problema del governo, bypassando una nuova fase di accordi e instabilità, era il male minore per affrontare sul piano politico la crisi tra le varie fazioni della borghesia italiana e rimescolare le carte per dare vita ad un nuovo esecutivo. Sul versante dei vincoli istituzionali, pesa il dettame costituzionale delle nuove elezioni entro 70 giorni dallo scioglimento delle Camere, ma soprattutto la necessità di avere un governo pienamente operativo nei mesi autunnali, in cui si presenta la legge di bilancio. Ciò che ne viene fuori è il primo processo elettorale della storia della Repubblica che si dispiega nel mese di agosto e in cui si vota a settembre, con un insieme di fattori derivanti dalla legge elettorale – tra cui la raccolta di 70mila firme sparse su tutti i collegi in poco più di 20 giorni.
VI. La campagna elettorale è caratterizzata da un rafforzamento della logica maggioritaria e della personalizzazione dei leader politici – con una legge elettorale che, tra l’altro, impone l’indicazione del “capo politico” – e si concentra su una serie di temi e “assi” di dibattito che, in un quadro d’insieme, forniscono la cifra dell’attuale situazione sociale e politica. Centro-destra e centro-sinistra sono d’accordo su tutte le principali scelte economiche e strategiche condivise dai settori dominanti della borghesia italiana, al punto che pur di presentarsi come contrapposti l’uno all’altro sono costretti a utilizzare strumentalmente temi come l’immigrazione, i diritti civili o, da parte del PD, il richiamo alla tradizione antifascista contro il pericolo di destra. Tanto la scelta del M5S di puntare sul reddito di cittadinanza quanto le proposte che da più parti si levano invocando il salario minimo (proposto da tutti nelle elezioni politiche del 2018 e poi sparito dal dibattito) testimoniano la necessità, da parte di tutti i partiti borghesi, di ricercare il consenso tra i larghissimi strati della popolazione colpiti dalle politiche antipopolari e dalla povertà. Significativamente, la guerra in Ucraina fa tornare nel dibattito elettorale la collocazione internazionale dell’Italia, al punto che i partiti più atlantisti si affrettano a dichiarare la propria fedeltà allo schieramento euro-atlantico, e i settori più “critici” sulla condotta del governo Draghi si premurano comunque di precisare che la loro critica non mette in discussione la presenza dell’Italia nella NATO e nell’UE.
Gli schieramenti del campo politico borghese
VII. Il centro-destra è stato, assieme ai 5 Stelle, tra i principali artefici della caduta del Governo e l’intera coalizione ad oggi risulta quella in testa ai vari sondaggi. Da una parte Forza Italia e Lega in questi anni hanno perso progressivamente consensi, chiusi nella morsa mortale delle scelte impopolari varate dal Governo Draghi, in particolare in relazione a quei settori storicamente più filo-russi dopo le scelte dell’esecutivo nel sostegno all’Ucraina e nelle sanzioni nei confronti della Russia. Dall’altra, la (finta) opposizione “responsabile” di Fratelli d’Italia all’ultimo governo, nonostante ne abbia sostenuto tutte le principali politiche, ha portato il partito della Meloni ad accumulare una quantità notevole di consenso, rendendolo a livello di sondaggi, primo partito. Lo spostamento a destra dell’asse della coalizione, proprio per la natura e per le posizioni di FdI, sta facendo emergere una destra “nuova”, sul modello della Le Pen in Francia, che ormai ha progressivamente abbandonato le posizioni euroscettiche, con una collocazione fortemente euroatlantica – molto vicina USA e per una maggiore integrazione dell’Italia nella NATO – e nei fatti estremamente conseguente ai settori dominanti della borghesia italiana. Queste caratteristiche sono anche alla base della crescita in termini di consenso di FdI in quanto viene vista dagli stessi settori come una forza credibile ed, eventualmente, capace di governare all’interno di una collocazione euroatlantica dell’Italia. Ciononostante, nonostante l’indirizzo sostanzialmente “liberale” del partito della Meloni, lo spostamento a destra della coalizione apre anche al rafforzamento delle varie tendenze reazionarie – già viste in passato col Governo Conte 1 con i decreti sicurezza – che non sono assolutamente da sottovalutare visto l’attacco dello stato nei confronti dei lavoratori e delle forze di classe in lotta, soprattutto negli ultimi anni.
VIII. Il Partito Democratico, dopo la sconfitta nelle elezioni del 2018 sta progressivamente riconquistando consensi ritornando ad essere tra i primi partiti. In questi anni, e ancor più durante il governo Draghi, il PD si è confermato come il partito della stabilità, esecutore e garante delle volontà del capitale monopolistico, subendo in misura minore le oscillazioni della politica, assicurando la solida adesione all’Unione Europea e alla NATO e la realizzazione di politiche antipopolari; cercando il minor conflitto sociale possibile, anche in virtù di una maggiore capacità di permeabilità nei sindacati, di una parvenza progressista e di un legame ideale con la sinistra. Legame che oggi il vertice del PD punta a rafforzare, almeno sul piano delle apparenze, anche per la necessità – dettata dalle elezioni – di evitare la polarizzazione di forze su una lista alla sua sinistra.
In questa ottica si è prodotta la riunificazione col centro-sinistra di forze che mai avevano rotto con quella logica, che oggi compongono l’Alleanza Verdi e Sinistra, nata dalla convergenza di pezzi dei Verdi e di Sinistra Italiana, con alcune candidature di spicco. Non deve stupire, a tal proposito, la candidatura di Aboubakar Soumahoro in una lista del centro-sinistra, perfettamente coerente con il suo percorso e con la sua condotta negli anni dell’attività sindacale (si ricordi lo “sciopero a rovescio” del novembre 2020). Dovrebbe semmai far riflettere su quanto sia malata la logica, diffusa anche a sinistra, secondo cui l’assenza di un processo di convergenza di forze di classe e di sedimentazione di una cultura politica alternativa possa essere surrogata dalla costruzione di consenso politico-elettorale attorno a singole personalità di spicco.
Il centro-sinistra, nell’assenza di qualsiasi connotazione classista di partiti che ormai sono sempre più liberali e sempre meno socialdemocratici, punta sui temi dei diritti civili e della transizione ecologica, provando a collocarsi nel panorama politico come unico campo “progressista” e unica “opposizione” all’avanzata delle destre, appellandosi come sempre alla retorica del voto utile contro lo spettro di un possibile governo a guida Meloni.
Se la scissione dei 5 Stelle della parte legata a Di Maio rispondeva a posizioni divergenti di interessi specifici all’interno del Movimento, con la conseguente fondazione di Impegno Civico, la costruzione dell’asse con Tabacci e l’entrata di questa in coalizione col centro-sinistra, non si può dire lo stesso.
Più che di posizionamento ideologico, la scelta di entrare in coalizione col centro-sinistra è frutto del calcolo politico e di interessi specifici: infatti il PD, aprendo al diritto di tribuna per chi è in coalizione, permetterà ai vari leader politici di formazioni che difficilmente avrebbero raggiunto la soglia del 3% di entrare comunque in parlamento, garantendo una loro continuità. All’interno di questo ragionamento rientra pure +Europa che, riconfermando un collocamento fortemente europeista e liberale, è più in linea con un posizionamento “progressista” che all’interno del cosiddetto “centro liberale”, su cui pesano i legami con la chiesa cattolica e l’impronta profondamente democristiana.
IX. Il Movimento 5 Stelle è più di tutti il partito che rispetto alle politiche del 2018 esce con le ossa rotte. La contraddittoria condotta del M5S, percepita sempre più come incoerente e figlia del tradimento di presunte rivendicazioni “radicali” delle origini, ha portato a una rapidissima perdita di consensi. I conflitti interni, che hanno portato a varie scissioni – non ultima appunto quella del gruppo legato a Di Maio – che hanno sostenuto in maniera più attiva il Governo Draghi, si inseriscono nella cornice di un partito che vive direttamente le pressioni di vari segmenti del capitale, su cui spiccano quelli legati a tendenze più filo-cinesi e filo-russe.
Il ruolo chiave nella caduta del Governo, più che il prodotto di un mea culpa circa gli indirizzi strategici espressi, è direttamente legato alla necessità del M5S da una parte di rispondere alle pressioni dei settori contrari ad una forte integrazione euroatlantica e che stanno subendo forti danni a causa degli aumenti dei costi del carburante e dell’energia, dall’altra di tentare di rifarsi una “verginità” politica per reggere l’urto delle elezioni imminenti.
Mentre il centro-sinistra devia apertamente verso il liberalismo, anche per la volontà di occupare lo spazio del centro liberale che si presenta – in potenza – come nuovo “terzo polo” – il Movimento Cinque Stelle cerca di rinnovarsi occupando lo spazio della socialdemocrazia, presentandosi come il principale difensore del reddito di cittadinanza e proponendo – cosa degna di nota – la riduzione dell’orario di lavoro settimanale a parità di salario. Rivendicazione, quest’ultima, ben più avanzata del salario minimo che tutte le forze politiche rispolverano sotto elezioni, e che vede oggi il M5S – certo per finalità elettorali e di costruzione del consenso tra le fasce operaie e popolari schiacciate dal carovita e dalla crisi – come unica forza a proporla.
X. La formazione del cosiddetto “Terzo Polo” liberale è un elemento che mostra ancora di più la necessità di alcuni settori del capitale italiano, in particolare Confindustria, di esercitare sempre maggiori pressioni. Il patto tra Azione di Calenda ed Italia Viva di Renzi nasce da un calcolo politico estremamente chiaro: da una parte IV aveva necessità di ricercare un appoggio politico credibile, fortemente sostenuto da Confindustria e spinto dai media, per provare a rimanere in parlamento superando lo sbarramento, dall’altra a Calenda serviva l’esenzione per superare lo scolio della raccolta firme. La formazione di un “centro liberale” non solo inizia ad assumere proporzioni ben maggiori rispetto al passato, fagocitando molti consensi dell’elettorato storicamente vicino al centro-destra, ma è anche espressione diretta degli interessi dei settori del capitale che volevano continuare con il governo a guida Draghi.
Anche la rottura prematura di Calenda del patto con il PD è da inserirsi in questa prospettiva: i partiti più direttamente emanazione dei settori monopolisti ed industriali del capitale non vogliono avere più nulla a che fare con altri (come nel caso di SI, Verdi ed ex 5 Stelle) che potrebbero provocare problematiche su determinate tematiche e che porterebbero il PD a fagocitare sul piano del consenso formazioni come Azione ed IV che non hanno una reale capacità di presenza se non mediaticamente. Un posizionamento, quello del terzo polo, che fa propria in chiave efficentista la retorica della competenza contro i giochi di partito che avrebbero provocato la caduta insensata di un governo che secondo loro stava facendo molto bene: in tal senso non è un caso che nel programma elettorale spicchi su tutto l’attenzione a portare a termine i progetti del PNRR e la risoluzione delle problematiche relative all’approvvigionamento energetico. Il tentativo di intercettare l’elettorato giovanile, su cui la coalizione sta puntando parecchio, è un elemento non secondario perché riafferma la volontà di bombardare ideologicamente – con la retorica europeista e progressista – la gioventù nell’ottica di essere percepiti come quella parte della politica che opera secondo buon senso e senza “ideologia”.
XI. In questo scenario merita una particolare menzione l’operazione di propaganda ideologica che alcuni partiti e settori della borghesia stanno portando avanti nei confronti della gioventù. Da settimane giornali, TV e nuovi media, stanno realizzando una campagna di mistificazione che punta ad attrarre il voto giovanile alle coalizioni di centro-sinistra o al “terzo polo” liberale; questo in virtù dell’utilizzo strumentale da parte di queste forze politiche di tematiche a cui le fasce giovanili risultano essere tendenzialmente più sensibili (ambiente, lgbt, etc.) con l’obiettivo di accreditarsi come un’alternativa “progressista” all’avanzata della destra. Queste forze politiche, dopo essere stati principali fautrici delle leggi lacrime e sangue che hanno promosso la scuola-azienda, liberalizzato i contratti precari, alimentato la disoccupazione giovanile, cercano di apparire come portatrici di posizioni progressiste, salvo poi occuparsi di ambiente e di uguaglianze solo nella misura in cui ciò è funzionale alle esigenze dei capitalisti. Questo tentativo di accreditamento si scontra comunque con il sentimento prevalentemente diffuso tra le nuove generazioni, ovvero la sfiducia complessiva verso un sistema politico distante dai loro bisogni.
XII. Una “novità” di queste elezioni sono le liste espressione del raggruppamento di un’area politica sovranista al di fuori del centro-destra tradizionale. Ancora frammentata e non condensatasi in un’unica formazione, quest’area esprime oggi una serie di liste e formazioni che si contendono un’area di opinione sovranista e, soprattutto, ambiscono a capitalizzare il proprio consenso nella galassia delle teorie no-vax, del cospirazionismo di matrice più o meno reazionaria. In quest’area si annoverano il partito euroscettico Italexit, fondato da Gianluigi Paragone, la lista Italia Sovrana e Popolare nata dalla convergenza del partito di Marco Rizzo assieme a formazioni ed esponenti di destra, di matrice reazionaria (laddove non apertamente neofascista) e a settori del fondamentalismo cattolico, e la Alternativa per l’Italia nata dalla convergenza del Popolo della Famiglia di Mario Adinolfi con Exit, il partito fondato da Simone Di Stefano, fuoriuscito da Casapound. Tutte e tre le formazioni hanno incluso tra i loro candidati personaggi di aperta e dichiarata matrice neofascista, coerentemente con la retorica dell’unità tra le forze “antisistema” nella lotta contro le “élite globaliste”. Queste liste, espressione dei settori più reazionari della piccola e media borghesia, sono estranee al campo delle forze di classe e dannose perché, come tutte le forze con cui condividono la matrice nazionalista e sovranista, cercano di utilizzare la propria influenza in settori popolari e operai per trasformarli in massa critica da trascinare alla coda delle pulsioni più reazionarie della piccola borghesia.
XIII. La scelta del PC di Rizzo e del suo vertice di collocarsi in questo campo – al costo di una lunga serie di scissioni che hanno decimato il partito riducendolo a qualche centinaio di militanti – è un dato grave che, a nostro avviso, richiede una reazione ferma da parte di tutte le forze di classe che si rifanno alla storia del movimento comunista, oltre a dimostrare la necessità della lotta contro l’opportunismo all’interno del movimento operaio. La direzione intrapresa dal gruppo dirigente del PC, che ha come finalità l’ambizione di singoli dirigenti di rientrare in Parlamento e la persegue anche al costo di autodistruggere un partito, copre di fango un nome e un simbolo importanti ed è forse tra i punti più bassi mai raggiunti dall’opportunismo in Italia. Nel 2020, proprio la divergenza su questo era stata alla base della rottura tra il FGC e il gruppo dirigente maggioritario del PC, che espulse la minoranza che diede poi vita al Fronte Comunista. Oggi apprendiamo che, purtroppo, avevamo davvero ragione
Il quadro delle liste a sinistra
XIV. A sinistra, la convergenza del PRC e di Potere al Popolo nella lista Unione Popolare con candidato Luigi de Magistris rappresenta la frettolosa riunificazione, nella forma di cartello elettorale, delle due principali tendenze che in Italia fanno riferimento al Partito della Sinistra Europea, che anche nel 2018 si erano riunificate per le elezioni nella coalizione Potere al Popolo (poi tramutatasi nel partito attuale). Se il PRC, che esprime la vicepresidenza della Sinistra Europea (Paolo Ferrero), ne rappresenta la destra più apertamente riformista e governista legata a Syriza e alla Linke, PAP si rifà alla “sinistra” della dichiarazione di Lisbona del 2018 firmata da Bloco de Esquerda, Podemos e la France Insoumise di Mélenchon (quest’ultima fuoriuscita dalla Sinistra Europea). La nostra valutazione negativa su questa coalizione, che non è diversa da quella che tenemmo su Rivoluzione Civile (elezioni politiche del 2013), sulla “lista Tsipras” (europee del 2014) e su “La Sinistra” (europee del 2019), non dipende da semplici velleità di “purismo”, né dal feticcio dei simboli, né tantomeno dalla semplice aneddotica su vere o presunte malefatte compiute dagli uni o dagli altri. È una questione seria, di sostanza. Ciò che non condividiamo è il progetto di costruire in Italia il partito di riferimento della Sinistra Europea, cioè un partito sostanzialmente riformista, dall’anima socialdemocratica e dalla retorica “radicale”, che venda l’illusione della riformabilità dell’Unione Europea e dell’umanizzazione del capitalismo attraverso la partecipazione o la gestione dei governi borghesi, senza mettere in discussione i fondamenti del sistema capitalistico ma anzi nell’assoluta compatibilità con i suoi dettami. Era un progetto sbagliato nel 2012, quando all’ordine del giorno c’erano la crisi dei debiti sovrani e le infami politiche di austerità della BCE; è decisamente fuori tempo massimo oggi, quando la retorica radicale e la fraseologia “rivoluzionaria” si infrangono davanti all’evidenza di questi ultimi anni: la Sinistra Europea ha governato in Grecia (Syriza) continuando il massacro sociale dell’austerità e perseguendo l’obiettivo del rafforzamento del ruolo della Grecia all’interno della NATO e dei piani dell’imperialismo USA; ha sostenuto il governo in Portogallo (Bloco de Esquerda), governa oggi in Spagna assieme ai socialisti (Unidas Podemos) esprimendo i ministri di un governo antioperaio e antipopolare che assicura fedeltà all’alleanza euroatlantica e arriva ad accordarsi col governo marocchino sulla pelle del popolo Saharawi. La piena integrazione di queste forze nel sistema politico borghese e nell’amministrazione del capitalismo non deve neanche più essere argomentata e dimostrata, ma è semplicemente un fatto.
Ai compagni che, in assenza di altro, oggi sostengono questa coalizione vogliamo dire che la nostra posizione non si basa sulla stucchevole polemica del “non essere abbastanza di sinistra”. Il progetto di Unione Popolare, per di più, rappresenta un enorme passo indietro anche rispetto al progetto originario di Potere al Popolo e a ciò che rappresentava quella lista nel 2018. Con tutte le sue criticità, nel 2018 Potere al Popolo si presentava con una identità molto più marcatamente classista, popolare, operaia; cercava di costruire la narrazione di una forza emergente e alternativa all’attuale sistema. Oggi le forze che allora componevano PAP arretrano collettivamente riunendosi in un cartello “civico” elettorale costruito attorno alla singola figura di un leader, Luigi De Magistris, accettando tutti i paradigmi della politica borghese – persino nella gestione della campagna elettorale e della comunicazione riducendo il programma a “promesse” elettorali, con un generico richiamo alla “sinistra” in cui ogni identità di classe scompare.
Lo abbiamo già detto, lo ribadiamo: il problema non è l’assenza del simbolo della falce e martello o la purezza. Una coalizione operaia capace di far emergere una visione del mondo classista e di proiettarla anche sul piano elettorale, promossa e diretta dai comunisti, sarebbe un qualcosa di molto diverso che non ci vedrebbe né neutrali né indifferenti a un processo di questo tipo. Unione Popolare, semplicemente, non è questo perché nessuna forza ha voluto che lo fosse.
Con rispetto per i compagni che stanno sostenendo questa lista, prendiamo atto che il progetto dei comunisti è, radicalmente, un’altra cosa. Che c’è tanto da lavorare, e che scorciatoie purtroppo non ne esistono.
XV. Una riflessione franca deve essere fatta sulle liste di quei partiti che si rifanno alla tradizione comunista e che hanno scelto di presentare le proprie liste in una parte del territorio nazionale. Nello specifico, il PCI di Mauro Alboresi è riuscito a presentare le proprie liste in 9 regioni italiane – una copertura simile a quella della candidatura del PC di Rizzo nel 2018 – mentre il PCL di Marco Ferrando ha presentato la propria lista nella sola circoscrizione Liguria del Senato. Se la copertura territoriale parziale basterebbe da sé a definire queste candidature come orientate dalla mera volontà di testimonianza, è il principio a monte che dovremmo – tutti – avere la forza di mettere in discussione. Lo diciamo anche con spirito autocritico rispetto al nostro percorso passato, essendo noto il nostro ruolo nelle elezioni del 2018. Senza sottovalutare l’importanza, per un processo di ricostruzione comunista, di presentarsi alla classe operaia anche sul terreno delle elezioni borghesi, oggi andrebbe aperta una seria riflessione sull’utilità effettiva di candidature che non costruiscono nulla, che non sono legate a processi reali e vivi di riorganizzazione della classe e delle sue avanguardie politiche in partito, e che finiscono soltanto per certificare l’assoluta marginalità dei comunisti con risultati e percentuali mortificanti per tutti. Ogni processo elettorale in cui i comunisti certificano percentuali da “zero virgola” non passa senza lasciare traccia, ma rafforza la percezione della scomparsa dei comunisti; non solo non è utile a rilanciare un processo di ricostruzione comunista reale, ma finisce per tramutarsi addirittura in un ostacolo. È una riflessione che andrebbe aperta collettivamente, uscendo fuori dal “dilemma del prigioniero” prodotto dalla frammentazione oggi esistente e dalla competizione tra piccole sigle, per cui ogni formazione è spinta a candidarsi perché altrimenti si candidano gli altri. La situazione è grave ed è seria, ma non è sul terreno elettorale che è possibile superarla.
Quale prospettiva per le forze di classe?
XVI. Nella fase attuale caratterizzata dalla crisi e dalla guerra imperialista, più che di un’indicazione di voto serve che le forze di classe siano capaci di dare un’indicazione di lotta. Questa indicazione fondamentale non è oggi una frase di circostanza, ma la risposta che dobbiamo essere capaci di dare all’assenza di un’opzione di classe in questo processo elettorale. Rifiutiamo la logica del “turarsi il naso” quando viene invocata dai sostenitori del voto utile al centro-sinistra, utile solo a far fare al centro-sinistra le politiche della destra; la rifiutiamo quando invocata, in piccolo, a sostegno dei piccoli agglomerati a sinistra. Non diamo un’indicazione di voto né tantomeno ci abbandoniamo alla logica delle campagne per l’astensione, perché entrambe le cose sono figlie dell’idea illusoria secondo cui oggi alle masse popolari è concesso cambiare la propria condizione semplicemente con un voto (o col non-voto). Per quanto sia più difficile, quello che oggi dobbiamo fare da comunisti – e varrà anche quando ci si candiderà alle elezioni e si sosterrà una lista comunista – non è chiedere il voto, ma chiedere innanzitutto l’adesione a un progetto, a una causa, la rinuncia all’indifferenza e alla disorganizzazione. Dieci anni fa il M5S vendeva l’idea di poter cambiare tutto con un voto, senza partiti, sindacati, organizzazioni intermedie: il “cittadino”, da solo e non organizzato, con la sua matita nel seggio come unico strumento di lotta possibile e utile. Se pensiamo di giocare su questo terreno, di reiterare e incoraggiare questa logica, abbiamo perso. La fase che viviamo ci impone di chiedere innanzitutto organizzazione e coscienza, di costruire un’opzione di classe alternativa a partire dai luoghi di lavoro e del conflitto sociale.
XVII. Questa indicazione di lotta va immediatamente proiettata verso lo sforzo per costruire le mobilitazioni contro il governo che insedierà in autunno, contro il caro-vita, la gestione padronale della crisi, i piani imperialisti. A differenza di chi pensa che debba “passare la nottata” e attendere la formazione di un nuovo esecutivo, non abbiamo bisogno che il tempo sveli il volto del nuovo governo per raccogliere forze e incominciare un nuovo ciclo di mobilitazioni. Sappiamo già che quello che verrà sarà un governo che, come quelli che lo hanno preceduto, farà gli interessi della classe dominante e promuoverà politiche antipopolari capaci di peggiorare ancora di più le condizioni di vita e di lavoro di operai e strati popolari. Contro di esso bisognerà mettere in campo un percorso che, a partire dall’indizione di uno sciopero generale in autunno, su cui far convergere anche le mobilitazioni degli studenti sulla scia di quelle dello scorso inverno, sia capace di diventare punto di riferimento per le forze di classe e per i segmenti combattivi della classe operaia; una prospettiva che sia di riferimento per tutti quei lavoratori e strati popolari che nei prossimi mesi, su scala nazionale ed internazionale, vedranno scaricate sulle proprie spalle i costi della guerra imperialista, del carobollette, del carovita, della disoccupazione, della cassaintegrazione, di una eventuale recrudescenza della pandemia. Una prospettiva che costruisca un fronte di lotta e di classe capace di rispondere all’attacco padronale a 360 gradi, che crei le condizioni soggettive per affrontare lo sviluppo di probabili sconvolgimenti globali nei prossimi mesi e una ripresa molto accentuata delle mobilitazioni operaie-popolari in vari paesi del mondo.
XVIII. Non ignoriamo né neghiamo, in termini assoluti, l’importanza dei processi elettorali come terreno su cui rafforzare la riconoscibilità politica di una forza di classe o di un insieme di forze. Sappiamo che non si può affrontare a 360 gradi questo sistema senza costruire, affermare una rappresentatività politica in cui le forze mobilitate nella lotta possano riconoscersi e identificarsi, far avanzare una narrazione contrapposta a quella del campo avversario. Siamo coscienti che il processo di ricostruzione comunista che vogliamo non parte dalle elezioni, ma passerà in parte anche attraverso di esse, o comunque dovrà misurarcisi. Il punto oggi è che questo processo non è stato messo in moto, e nessuna operazione elettorale può surrogare alla sua mancanza. È un problema da affrontare di petto.
XIX. Così come non ci si può estraniare dal costruire la rappresentatività politica, non si possono fare solo elezioni. Soprattutto, non si può sacrificare la lotta di classe per le proprie esigenze elettorali. La condotta di quelle forze – sia politiche che sindacali – che solo pochi mesi fa erano disponibili al confronto e alla convergenza sull’organizzazione delle mobilitazioni e di uno sciopero generale in autunno, per poi fare dietro-front e ritirare questa disponibilità non appena la prospettiva delle elezioni il 25 settembre ha cambiato le loro priorità e reso “inutile” in termini elettorali uno sciopero ad ottobre, è da stigmatizzare non solo per la sua natura intrinsecamente opportunista ma per il danno concreto che arreca al movimento operaio. L’assenza di un governo contro cui scioperare nel momento di cui si convoca uno sciopero è una questione che ha senso sollevare in una discussione di opportunità tattica rispetto al momento e alle modalità di convocazione di una giornata di sciopero e/o di mobilitazione, e alla scelta della data. Non può essere invece invocata come scusante per smorzare la lotta di classe e negarne l’opportunità, per di più sottintendendo che i governi borghesi possano essere qualitativamente diversi l’uno dall’altro in questa fase a seconda di quali partiti governano.
XX. Il governo che si insedierà sarà probabilmente, stando almeno ai sondaggi attuali, un governo di destra trainato da Fratelli d’Italia e dalla Lega. Non bisogna assumere questo dato con eccessivo semplicismo, né appiattendosi sulla logica dell’avanzata “fascista”, né sottovalutando il peso di specifiche tendenze reazionarie di cui le forze di matrice nazionalista sono oggi espressione. La prospettiva della destra al governo apre, per riflesso, alla logica dell’unità “a sinistra”, incoraggiata dal centro-sinistra parlamentare nel ruolo di opposizione, che può tradursi in una maggiore disponibilità alla mobilitazione di quei settori sindacali su cui il centro-sinistra esercita una capacità di direzione, CGIL tra tutti. Pressioni analoghe, in forme che abbiamo già conosciuto, si rifletteranno a cascata nel movimento studentesco, con una diversa attitudine di quelle formazioni studentesche di centro-sinistra che negli scorsi anni hanno agito, più o meno apertamente, come “pompieri” delle mobilitazioni o promosso posizioni conciliatorie con il governo. Al netto di queste ultime considerazioni, la prospettiva stessa di una maggiore disponibilità alla mobilitazione di forze sindacali e di classe pone i comunisti nella posizione di adeguare la propria tattica di fase a una situazione in cui diventa ancor più importante la sfida posta ai vertici, alle burocrazie sindacali e alle dirigenze riformistiche, ai quali contendere l’influenza su settori di classe in mobilitazione. Nonostante, inoltre, la mobilitazione immediata della macchina propagandistica di tutti i partiti borghesi, è sempre più chiaro come il reclutamento al voto durante la campagna elettorale si scontri con un clima di sempre maggior insoddisfazione e distacco da parte della classe operaia e degli strati popolari nei confronti dell’intero sistema politico. Il fenomeno dell’astensionismo – sul quale un bilancio definitivo non potrà che essere fatto solo a seguito dei risultati elettorali, ma che, stando già alle previsioni, segnerà un nuovo record – è fortemente rappresentativo di questo sentimento. A questa sfiducia complessiva nei confronti del voto, vanno aggiunti anche i numeri di grandi fasce di popolazione escluse dall’accesso al voto tra cui il 13% di classe operaia immigrata che costituisce una parte rilevante della forza lavoro nel nostro paese e circa cinque milioni di fuori sede per motivi di studio/lavoro.
XXI. Quella del governo di destra a trazione nazionalista non è l’unica possibilità esistente. L’ipotesi di governo “Ursula”, cioè di un governo che escluda i sovranisti unificando lo schieramento politico europeista, o comunque quella di un governo di “unità nazionale”, ad esempio con la convergenza di PD, Forza Italia e “terzo polo” liberale, è ancora una possibilità aperta. Contribuiscono a tenerla aperta non solo le possibilità di rimonta del centro-sinistra o del M5S, abbastanza limitate, ma anche le divisioni interne al centro-destra, che vengono acuite dal contesto della guerra. Le dichiarazioni di Giorgia Meloni secondo cui Putin utilizzerà Matteo Salvini per “mettere in crisi” la linea dura della UE e della NATO contro la Russia sono significative, e se lette assieme al “prima gli italiani” che oggi la Lega associa alla richiesta di riduzione delle sanzioni alla Russia, danno un’idea della divisione esistente all’interno del campo borghese. In ogni caso, questa possibilità non muta le nostre valutazioni di fondo sul carattere dei governi borghesi. Rigettiamo l’idea, già vista nel passaggio dal governo Conte II al governo Draghi, di chi vede nei governi “tecnici” una sorta di commissariamento dell’Italia da parte di poteri sovranazionali, negando che essi siano espressione e riferimento dei grandi monopoli italiani e di Confindustria.
XXII. Il problema dell’organizzazione rivoluzionaria, cioè della costruzione del Partito comunista, resta ancora aperto. Non è il problema dell’assenza – più o meno parziale – della falce e martello sulle schede elettorali, che ne è semmai conseguenza, ma il problema dell’assenza dell’avanguardia organizzata della classe lavoratrice. Non può essere meccanicamente risolto con il semplice sviluppo lineare delle lotte, né può essere sostituito con operazioni elettorali di matrice opportunista e di corto respiro. Da anni sosteniamo la necessità di convergenza di forze sindacali e politiche in un unico processo di lotta e di mobilitazione, per rispondere al fronte unico dei capitalisti con un fronte unico della classe lavoratrice. Continuiamo a sostenerla, consapevoli che questa convergenza di per sé non è il partito, non deve esserlo e non può diventarlo. È però un processo utile a costruire un terreno fertile, a far sì che esista un movimento reale, organizzato e vivo in cui i comunisti e le avanguardie politiche possano legarsi alle avanguardie sindacali e più coscienti della classe lavoratrice. Per fare questo resta necessario uno sforzo di volontà, un impegno soggettivo da parte di tutti i soggetti politici, di respiro nazionale e nei territori, che oggi si pongono concretamente il problema della ricostruzione di un’opzione comunista in questo Paese. A tutti questi soggetti chiediamo di mettere a disposizione le loro forze. Il terreno per farlo, però, non è già quello della lista elettorale. Siamo convinti che nel contesto attuale il raggruppamento rivoluzionario dei comunisti in un unico partito d’avanguardia, come processo organico al movimento di classe, non può che avvenire nella forma della ricomposizione e della aggregazione di forze provenienti da esperienze differenti, sulla base, però, della condivisione degli obiettivi, di una comune visione ideologica, di un programma rivoluzionario, a partire da una discussione pubblica e franca. Non bisogna più pensare alla semplice ricomposizione delle forze già organizzate ed esistenti sotto forma di “lista elettorale” o sommatoria di sigle, ma concentrarsi, al contrario, sulla necessità di organizzare, sul terreno della lotta, le forze nuove che emergeranno da un ciclo di lotte e di mobilitazioni operaie, popolari e anticapitalistiche, che abbiamo il dovere di costruire, promuovere e far avanzare. Questa è la strada per rompere con l’opportunismo di questi anni e con le macerie che ha lasciato, non solo sulla scheda elettorale, ma soprattutto nella realtà.