Analisi sul ruolo dei contributi studenteschi
1) CONTRIBUTO SCOLASTICO
Da anni nelle scuole superiori italiane si è diffusa la prassi di richiedere un contributo di natura economica alle famiglie degli studenti, in prossimità dell’iscrizione all’anno scolastico. Negli ultimi anni si è iniziato a parlare sempre più frequentemente dei contributi scolastici, da una parte perché la loro entità è notevolmente cresciuta, dall’altra perché numerosi episodi di scuole che arrivavano a pretendere il versamento del contributo anche ricorrendo a intimidazioni di vario tipo nei confronti degli studenti (dalla minaccia di ritorsioni sul voto di condotta o sulla valutazione finale fino al rifiuto dell’iscrizione) hanno attirato l’attenzione dei media. Attualmente l’entità media dei contributi richiesti dalle scuole si aggira attorno ai 100-130 euro, che diventano di 70-80 euro nei tecnici e professionali con edilizia fatiscente e laboratori di scarsa qualità, e raggiungono anche i 200 euro negli istituti alberghieri o nei licei “di serie A”. Vi è in generale una tendenza a richiedere contributi proporzionali alla quantità di laboratori presenti e alla qualità delle infrastrutture, rendendo di fatto più costose le scuole “migliori”.
Soprattutto in tempi di crisi, la domanda che genitori e studenti si pongono quando si vedono recapitare un bollettino con cifre simili è immaginabile: va pagato o se ne può fare a meno? Molto è stato fatto dal movimento studentesco in questi anni per ribadire la natura volontaria del contributo scolastico, e difendere la libertà delle famiglie di scegliere se pagarlo o meno, contrastando la tendenza delle scuole che invece spesso ne sostengono l’obbligatorietà. Le componenti più “radicali” del movimento hanno iniziato timidamente a esprimere posizioni contrarie all’esistenza del contributo in quanto forma di tassazione sulle famiglie, ma senza andare oltre la mera presa di posizione. Il punto è che quando si parla di contributi scolastici non c’è in ballo solo la libera scelta delle famiglie di pagarlo o non pagarlo, così come non c’è in ballo soltanto il bilancio della singola scuola che magari lo richiede con maggior prepotenza.
Nei capitoli che seguiranno cercheremo di spiegare a fondo la questione del contributo scolastico, rivelandone la vera natura ed elaborando di conseguenza una adeguata pratica di lotta.
2) COME È NATO IL CONTRIBUTO E QUAL È LA SUA VERA FUNZIONE?
Per comprendere la vera natura del contributo scolastico non si può considerarlo come un elemento a sé, ma è necessario contestualizzarlo nel quadro di ciò che sta avvenendo all’istruzione pubblica in Italia. Se si analizza a fondo la storia del contributo scolastico, ci si rende conto del fatto che non solo il contributo è inquadrato nel più ampio processo di smantellamento e dequalificazione dell’istruzione pubblica nel nostro paese (a sua volta inquadrato nel più generale smantellamento del settore pubblico nei paesi occidentali, iniziato con la fine della socialdemocrazia e dello stato sociale e l’approdo del capitalismo all’epoca neoliberista), ma è stato addirittura la leva fondamentale per avviarlo.
In Italia, per quanto riguarda l’istruzione, questo processo ha avuto delle sue peculiarità legate proprio alla nascita del contributo scolastico. Le basi per questa operazione vennero gettate nel 1997 dal governo di centro-sinistra. Con la “autonomia scolastica” introdotta da Luigi Berlinguer (Ministro dell’Istruzione dei governi Prodi I e D’Alema) nel ’97 e presentata come una innocua “autonomia della didattica”, venivano in realtà abrogati due articoli del Testo Unico sulle leggi della scuola pubblica (T.U. 297/94) che vietavano tassativamente alle scuole di richiedere denaro alle famiglie. La nuova tendenza di chiedere un contributo economico per l’iscrizione non è dunque dovuta al caso o alla necessità, ma ad una precisa scelta legislativa.
Inizialmente il contributo era funzionale al finanziamento di attività extracurricolari del POF. Ben presto, però, le scuole iniziarono ad assistere alla riduzione dei finanziamenti statali, che non è mai cessata e che a partire dal 2008 ha raggiunto dimensioni spropositate. I tagli pianificati per il triennio 2009-2011 con la Finanziaria del 2008, che ammontavano a poco meno di 14 miliardi di euro, vanno sommati ad altri 8 miliardi di tagli previsti per il triennio 2012-2014 dal Documento di Economia e Finanza del 2011, per un totale di quasi 22 miliardi di euro di tagli nell’arco di 6 anni, che hanno ridotto praticamente in ginocchio la scuola pubblica. Come conseguenza di questi tagli, il contributo scolastico ha gradualmente perso la sua funzione originaria e ha iniziato a sopperire alla mancanza di fondi. È oggi evidente come la riforma del ’97 (entrata in vigore nel ’99) servisse a preparare il terreno per il progressivo trasferimento dallo Stato agli studenti (e alle loro famiglie) dell’onere di finanziare l’istruzione pubblica.
Già a metà del decennio 2000-2010, poi, iniziavano ad accumularsi nei bilanci delle scuole i cosiddetti residui attivi, cioè quelle somme che le singole scuole hanno a credito nei confronti dello Stato, e che in realtà non sono state pagate. Come conseguenza, le scuole hanno anticipato con i soldi delle famiglie (che consentono una maggiore duttilità nell’utilizzo poiché ci si limita di fatto a ignorare quello che dovrebbe esserne il vincolo di destinazione – vedi cap. 3) le spese che in realtà avrebbero dovuto essere sostenute dallo Stato. La circolare del MIUR del 13 aprile 2012 (prot 2446), che inviava alle scuole istruzioni su come comportarsi “in attesa dell’assegnazione integrativa” di fondi da parte dello Stato, ha legittimato fra le righe l’utilizzo dei soldi dei contributi per coprire le spese ordinarie, avvertendo di non utilizzare i residui attivi a copertura delle spese quasi sottintendendo che le scuole non li riavranno. I residui attivi, il cui ammontare complessivo resta sconosciuto, sono oggi una finzione che permette di tenere in parità il bilancio delle scuole, che altrimenti, non contando i soldi delle famiglie, sarebbe in rosso. È sotto gli occhi di tutti –ne accennavamo nel capitolo introduttivo- come l’entità del contributo sia cresciuta proporzionalmente ai tagli all’istruzione: dai 30-40 euro dei primi anni alla media nazionale che oggi è di circa 100-130 euro, si è assistito a una crescita di oltre il 200%. Se i contributi vengono richiesti con sempre più insistenza da parte delle scuole, ciò è dovuto all’effettiva necessità di riscuoterli pur di far quadrare i bilanci ed è una conseguenza dei massicci tagli ai fondi di finanziamento.
Nel complesso, dunque, lo strumento tramite il quale si è condotto lo smantellamento della scuola pubblica è stato proprio il contributo scolastico: i governi si sono potuti permettere di finanziare sempre di meno la scuola perché contemporaneamente le famiglie venivano spinte a finanziarla sempre più di tasca propria. La maggior parte dei fondi previsti dal “risanamento tremontiano” del Governo Berlusconi (manovra di circa 60 miliardi) proviene dai tagli all’istruzione. È bene evidenziare che se in Italia più che in ogni altro paese i Governi hanno recuperato i fondi per le operazioni imposte dai diktat europei (salvataggio di banche e monopoli con i fondi pubblici, vincoli su debito e bilancio, ecc) semplicemente tagliandoli dall’istruzione pubblica, è stato perché ciò era reso possibile dalla presenza del contributo scolastico, che ad oggi resta una peculiarità tutta italiana rispetto al quadro europeo. Analogalmente, se l’Italia è agli ultimi posti in Europa per percentuale di PIL investita nell’istruzione, è proprio perché buona parte del finanziamento della scuola pubblica è stato in realtà scaricato sulle famiglie “autorizzando” le scuole a richiedere il contributo scolastico, che sta diventando progressivamente una vera e propria tassa d’iscrizione in barba al diritto allo studio.
3) CENNI E RIFERIMENTI LEGALI SUI CONTRIBUTI
Un’altra peculiarità del contributo scolastico è la scarsità di riferimenti legislativi che lo riguardano, cosa che ha reso molto controverse alcune questioni circa la sua obbligatorietà e il fantomatico potere impositivo degli istituti scolastici ai sensi “della autonomia”, come spesso si afferma nelle scuole, cioè il potere di rendere obbligatorio il pagamento del contributo tramite una delibera del Consiglio di Istituto (potere che in molte scuole si rivendica pur essendo assolutamente privo di fondamento).
Certo è che diverse fonti legislative ribadiscono la gratuità dell’istruzione obbligatoria (3° anno di istruzione superiore/16° anno di età), e individuano le tasse erariali, formalmente le uniche obbligatorie, da pagare unicamente per le iscrizioni al 4° e/o al 5° anno (tassa di iscrizione: 6,04 euro; tassa di frequenza: 15,30 euro, T.U. 297/94 art. 200).
La legge 40/07 (legge Bersani) fa riferimento alla possibilità di detrarre dalle tasse nella misura del 19% l’ammontare delle “erogazioni liberali” finalizzate all’innovazione tecnologica, all’edilizia scolastica e all’ampliamento dell’offerta formativa, limitandosi solamente a prendere atto di una prassi già largamente diffusa nelle scuole e a consentirne la parziale detrazione, in analogia a quanto già previsto per le rette delle scuole private. Resta comunque controverso se il contributo scolastico richiesto dalle scuole possa considerarsi automaticamente una “erogazione liberale” di questo tipo. Nei regolamenti di alcuni istituti, infatti, si fa una distinzione fra il contributo scolastico (affermandone la obbligatorietà in una delibera del consiglio di istituto) e le “erogazioni liberali ai sensi della legge 40/07”.
Ci sono poi le note del Ministero dell’Istruzione, che come si può immaginare tendono a essere sconosciute ai “non addetti ai lavori”, ma che contengono alcune disposizioni importanti. Le note del 20 marzo 2012 (prot. 312) e quella del 7 marzo 2013 (prot. 593) precisano la natura volontaria del contributo. In particolare nella seconda si legge che alle scuole non viene riconosciuta nessuna capacità impositiva e che “la frequenza della scuola dell’obbligo non può che essere gratuita, mentre, per le sole classi 4° e 5° della scuola secondaria di secondo grado, fatti salvi i casi di esonero, essa è subordinata esclusivamente al pagamento delle tasse scolastiche erariali”. È poi interessante notare come nella prima delle due note citate si legga testualmente: “le risorse raccolte con contributi volontari delle famiglie devono essere indirizzate esclusivamente ad interventi di ampliamento dell’offerta culturale e formativa e non ad attività di funzionamento ordinario e amministrativo che hanno una ricaduta soltanto indiretta sull’azione educativa rivolta agli studenti”. Se confrontiamo quanto si afferma in questa nota con l’avviso di non utilizzare i residui attivi a copertura delle spese contenuto nella nota del 13 aprile 2012 (prot. 2446), già citata nel capitolo precedente e di poco posteriore a quella del 20 marzo, ci rendiamo conto di come in realtà l’utilizzo dei fondi dei contributi per le spese ordinarie, seppur formalmente stigmatizzato, sia reso di fatto necessario dalle stesse disposizioni del Ministero.
Al di là delle fonti citate, una normativa davvero esauriente sui contributi scolastici non esiste. Certo le disposizioni contenute nelle note ministeriali sono sufficienti a condurre vertenze per impedire alle scuole di imporcelo obbligatoriamente, poiché è chiaro che neanche una delibera di un Consiglio di Istituto può derogare a una direttiva del Ministero. Ciò che bisogna chiederci, però, è se sia sufficiente limitare l’attività del movimento studentesco alla sola lotta di stampo vertenziale per ribadire la volontarietà del contributo scolastico richiesto alle famiglie degli studenti, o se piuttosto sia necessario andare oltre.
4) DIFENDERE LA SCUOLA PUBBLICA, BOICOTTARE IL CONTRIBUTO!
Se si comprende l’analisi esposta in questo documento circa il ruolo primario giocato dal contributo scolastico nel processo di smantellamento della scuola pubblica nel nostro paese, allo stesso modo si comprende che la protesta degli studenti non può essere rivolta semplicemente verso le singole scuole in cui il contributo viene preteso con più prepotenza, ma è necessario collocarsi in netta opposizione all’esistenza del contributo scolastico in quanto tale, cioè in quanto forma di tassazione crescente sulle famiglie.
Come analizzato in precedenza, il contributo scolastico è stato la leva per imporre tagli sempre maggiori all’istruzione, sostituendo progressivamente le famiglie allo Stato nell’onere di finanziare la scuola pubblica e facendo passare il messaggio che non farlo sarebbe andato a svantaggio dei propri figli. Tirando le somme, è stato proprio il pagare assiduamente i contributi senza mai fare domande a produrre i danni maggiori, visto che oggi si assiste alla totale insufficienza dei fondi statali nel sostenere anche le sole spese ordinarie. L’espressione “truffa dei contributi”, usata in questi anni da alcune organizzazioni studentesche, è oltremodo fuorviante perché induce a puntare il dito principalmente contro le scuole “colpevoli” di richiedere i contributi (magari tacendo sulla non obbligatorietà) piuttosto che contro i governi che proprio grazie al contributo hanno potuto tagliare indiscriminatamente sulla scuola. Limitarsi a voler ribadire la natura volontaria del contributo, magari invitando chi può a “pagarlo perché le scuole ne hanno effettivamente bisogno”, significherebbe non comprendere questo importante passaggio e rendersi di fatto complici di ciò che sta avvenendo.
Che fare, dunque? In che modo il movimento studentesco, giunto a questo grado di coscienza, può tradurre in pratica politica la sua opposizione ai contributi scolastici come leva per tagliare sulla scuola pubblica? Il contributo scolastico oggi rappresenta l’elemento che più di tutti può scatenare una protesta differente da tutte quelle viste negli ultimi anni. Una protesta che non si collochi sulla difensiva rispetto all’attacco al diritto allo studio che viene condotto dall’alto, ma che al contrario faccia ripartire l’offensiva dagli studenti. Tradurre la protesta contro i contributi in una lotta offensiva significa costruire un boicottaggio dei contributi scolastici in tutta Italia.
Le componenti più avanzate del movimento studentesco, cioè quelle che hanno compreso il ruolo dei contributi e se ne dichiarano contrari, negli ultimi anni hanno usato anche slogan come “no al contributo scolastico” durante le manifestazioni, ma nessuno ha mai tradotto in pratica questa parola d’ordine al di là della protesta di piazza. È assolutamente necessario comprendere che assumere una posizione contraria alla richiesta dei contributi scolastici senza portare nelle scuole la conseguente parola d’ordine del boicottaggio e limitandosi all’informazione sulla loro non-obbligatorietà significa scivolare in una inaccettabile forma di attendismo: si è contrari ai contributi scolastici, lo si urla nelle piazze, ma non ci si comporta di conseguenza e si sceglie di attendere che l’inversione di rotta arrivi per iniziativa del Governo, il che è pura utopia.
Il ricatto è sotto gli occhi di tutti: i soldi dallo Stato non arrivano, quindi o le famiglie finanziano la scuola pubblica di tasca propria o semplicemente questa crollerà a pezzi più di quanto non stia già avvenendo. Accettare questa visione ma rifiutarsi al contempo di portare in ogni scuola la parola d’ordine del boicottaggio dei contributi significherebbe dichiararsi contrari a parole a questo ricatto, ma accettare che siano i ricattatori a scegliere fino a quando e in quale misura continuare a ricattarci. L’indirizzo dei governi che si susseguono, siano essi di centro-destra o di centro-sinistra, è chiaro: fare fronte ai diktat europei recuperando fondi dovunque sia possibile, anche a costo di smantellare i diritti delle fasce popolari. Continuare a urlare nelle piazze la propria opposizione al contributo scolastico mentre si continua a pagarlo avrà come unica conseguenza, che sia fra cinque o dieci anni, quella di vedere le scuole sprofondare sempre di più e i contributi divenire sempre più cari.
Costruire una protesta nazionale tramite il boicottaggio dei contributi scolastici è oggi l’unico modo per non cedere più al ricatto e inchiodare il Governo alle sue responsabilità. Non pagare più i contributi scolastici significa dire a gran voce che non saremo più noi a finanziare la scuola pubblica mentre i soldi pubblici vanno alle scuole private, alle banche, ai grandi monopoli o alle “grandi opere”, e oggi è l’unica alternativa all’accettazione passiva di quanto sta avvenendo. Siamo ben consapevoli che nell’immediato il boicottaggio dei contributi potrà comportare la rinuncia ad eventuali attività e progetti, così come a piccoli disagi come la riduzione della fornitura di fotocopie, la mancanza di una copertura assicurativa, ecc. È una protesta di più ampio respiro, perché in gioco c’è qualcosa di più grande: il diritto all’istruzione così come lo abbiamo conosciuto, che in questo momento ci appare quanto mai compromesso per le generazioni immediatamente future.
È necessario che questa protesta assuma una dimensione di massa: ogni collettivo, ogni cellula militante, ogni studente dovrà impegnarsi in prima linea nella sua scuola per spiegare a tutti qual è il progetto che è stato reso possibile grazie al contributo scolastico; spiegare che pagarlo oggi significa rendersi complici di questo progetto, e viceversa non farlo significa schierarsi a favore di una scuola pubblica che sia gratuita e di un diritto allo studio che oggi è sempre più minacciato dalla scuola di classe che questo sistema sta costruendo.
DIFENDI LA SCUOLA PUBBLICA, BLOCCA IL CONTRIBUTO